"Le ombre di Morjegrad" romanzo di Francesca Cavallero

#diariodierrebi L'intervista a Francesca Cavallero mi è parsa un buon modo per comprendere ancora meglio il suo libro d'esordio che ho appena terminato di leggere. Così, detto fatto, in un attimo Francesca mi ha messo a parte di un ulteriore pezzo del suo mondo. Seguitemi per scoprire insieme parte del mondo di una promessa della fantascienza italiana. 



Ciao Francesca e benvenuta sul Diario di ErreBi, sono lieta di ospitarti.
Ho alcune curiosità da soddisfare in merito al tuo romanzo "Le ombre di Morjegrad", vincitore nel 2018 del Premio Urania.

Credi forse di scampare alla domanda di apertura? Nemmeno per idea, quindi ti chiedo 
R. perché una persona dovrebbe leggere il tuo romanzo d’esordio: Le ombre di Morjegrad.
 F. Grazie, innanzitutto, per aver deciso di ospitare me e le mie Ombre sul tuo blog. Siamo molto felici di essere qui.
Una persona dovrebbe leggere Le ombre di Morjegrad… perché è un romanzo di fantascienza che NON parla di pandemie!
Scherzi a parte. Le ombre di Morjegrad è un libro sulla necessità e sull’importanza di non arrendersi. In un mondo duro, pieno di cicatrici come le anime di chi lo abita, rimanere in contatto con la propria umanità è difficile, quasi impossibile: ma guardando negli occhi se stessi e chi si ama si capisce subito per che cosa vale la pena combattere.

R. Qual è stato lo sviluppo creativo delle Ombre, partendo dall’idea e terminando con la vittoria del Premio Urania. 
F. Da tantissimo tempo avevo in mente un “affresco nero”, l’immagine di una città quasi dantesca in cui ambientare una storia che potessi amare. Considera che io sono cresciuta in Val Bormida, una terra verde e che amo tantissimo, ma che reca ancora le ferite dei suoi trascorsi industriali: il tema dello sfruttamento ambientale, della distruzione della natura e delle conseguenze che ne derivano per me è molto importante. 
Il cinismo a tutti i costi e l’assenza di empatia fra le persone, poi, mi terrorizzano, per questo ho creato dei personaggi che partissero da una situazione molto “compressa”, ritorta su se stessa, e che traessero forza dalla progressiva scoperta della propria umanità.
Il motore del romanzo è basato su una domanda: se gli umani fossero costretti ad abbandonare la Terra, come si comporterebbero nei confronti del nuovo pianeta e nei confronti dei propri simili? Ecco, io temo che compirebbero gli stessi errori che hanno portato il nostro mondo alla rovina. Quello che “agisco” nelle Ombre è anche un rituale apotropaico: mi confronto con la paura di trovarmi trascinata in un vortice di auto-distruzione e non avere la forza o la lucidità di fare qualcosa per fermarlo. E forse, a ben guardare, questo meccanismo è già in atto.
I personaggi sono nati nel corso degli anni e piano piano mi hanno raccontato la loro storia, mi hanno lasciato intravedere i loro profili, la loro favola e la loro tragedia. Ho tantissimi frammenti che ne parlano, l’equivalente narrativo degli schizzi o delle bozze per un pittore. 
Nel 2017 mi sono trovata a riordinare un po’ di materiale e ho avuto una mezza folgorazione: sapevo chi, cosa, come, quando e dove. Il mio sogno era partecipare al Premio Urania, ma ero intimidita da morire. Impiegai un anno, un anno e mezzo, fra elaborazione, analisi, rielaborazione. Poi a novembre 2018 chiusi il mio plico e lo spedii… anche se fui sul punto di non entrare nell’ufficio postale. Luca e mia madre minacciarono sconquassi familiari, se mi fossi tirata indietro!

R. Tra tutti i sottogeneri fantascientifici disponibili, ti sei orientata verso il cyberpunk e le atmosfere distopiche. Qual è l’origine di questa scelta?
F. Flirtare oggi con il cyberpunk, secondo me, significa giocare con le dinamiche del rapporto uomo-tecnologia, farle dialogare e provare a darne una rilettura “in soggettiva". Mi spiego: sono convinta che solo quando scegliamo di condividere la nostra fragilità con qualcuno riusciamo davvero a evolvere come persone e come civiltà, non conta il grado di competenze e sviluppo tecnologico raggiunto. Alex evolve quando mostra a Sarah i suoi disegni, non perché approfitta del parassita bio-tech che nasce in lei per compiere la sua vendetta, non è questo che la rappresenta; Chloe evolve quando decide di raccontarsi a Jayde, non perché sceglie di farsi sondare la memoria da una macchina in grado di arrivare ai ricordi più profondi delle persone, e così via.
Viviamo in un mondo dove tutto, di noi, galleggia in superficie: decidiamo cosa mostrare, ci preoccupiamo della nostra immagine percepita. Non è una critica ai social, che secondo me rimangono un buon modo per rimanere in contatto e capire la nostra civiltà (se vissuti come strumento di lettura e narrazione). 
La vera distopia, secondo me, sta nel gioco delle indifferenze
A Morjegrad c’è un sistema che divide la popolazione in persone di serie A,B,C e… D. In cima c’è l’Amministrazione, di cui fa parte (ma che allo stesso tempo deve relazionarsi con) una altrettanto generica Aristocrazia Industriale. Ho lasciato fluttuare i fili che definiscono il vertice, perché nel corso del romanzo si scopre che in realtà Morjegrad rappresenta un meccanismo che può schiacciare chiunque. Un tritacarne. Morjegrad è una forma mentis: la poesia di una città sul mare che sorge su un pianeta lontano si trasforma nella tragedia del suo tradimento, avvenuto per mano di chi avrebbe dovuto fondarla sulle persone e non sui numeri, sulle categorie, le etichette. Se sei nato dalla parte “sbagliata” delle Mura, a Morjegrad, sei soltanto un oggetto: ma ti senti davvero al sicuro, anche se vivi dalla parte “giusta”?

R. I tuoi personaggi chiave sono principalmente donne. Perché hai optato per questa soluzione? 
F. Non è stata una scelta cosciente. Semplicemente, mi era più facile immaginare comportamenti di personaggi femminili. Man mano che li mettevo in relazione ho capito che avrei potuto disegnare un interessante gioco di specchi: c’è almeno un lato di ogni personaggio che si trova riflesso (magari distorto) in un altro, che però si trova da tutt’altra parte all’interno del romanzo. È un piccolo puzzle che mi sono divertita molto a costruire: Alex e Chloe sono fatte di rabbia e si riflettono dentro i loro contrari, ma scoprono e vivono in modo diverso la loro fragilità; Sarah e Ártemis sperimentano ognuna una propria versione della maternità, alternando la pulsione di vita a quella di morte; Michelle e Daphne potrebbero essere la stessa persona in età differenti, ma la vita ha regalato loro destini opposti; anche Viktor e Scott sono molto diversi, ma entrambi sanno amare e rispettare la forza della donna che amano, e così via. Sicuramente c’è un discorso di sensibilità personale e perfino di "comfort zone”: mi è più facile scivolare in panni femminili e sono terrorizzata dall’idea di costruire personaggi-fantoccio, di creare involucri senza sostanza. L’arte di incarnare alla perfezione profili lontani è molto difficile, secondo me, per questo sono strabiliata dalla maestria di scrittrici come Irène Némirovski, che ha il potere di gestire in modo verosimile affreschi umani estremamente complessi: uomini, donne, bambini, anziani… ti sembra di conoscerli da sempre. Un’empatia di questo livello è arte preziosa ma difficile da padroneggiare.

R. Le donne che hai narrato sono solidali tra loro e comunque vincenti. Sai di avere proposto due alternative a cliché ai quali molti lettori sono abituati?
F. Devo dire la verità, all’inizio non mi sono posta minimamente il problema. Ho soltanto scritto un libro che mi sarebbe piaciuto leggere, senza impormi alcun tipo di limite. Poi però ho pensato: ecco qua, molte protagoniste donne, tutte a loro modo guerriere, ribelli che fanno delle loro ferite una forza… Mmh. Insolito. Rischioso. Ma perché? In fondo noi donne siamo delle combattenti, tutti i giorni, il problema è che spesso non ce ne rendiamo conto. La prendiamo così com’è. Eppure siamo abituate a stare con il coltello fra i denti, magari un po’ meno a essere solidali, e penso che questo sia un buon obiettivo a cui lavorare: le ombre devono mescolarsi, per proiettare forme nuove (che è anche il vero senso del titolo del libro).
In molta fantascienza del passato la donna era un personaggio ornamentale, una bambolina, ma è normale che questo cambi. Spero che, un giorno, non sia più necessario stupirsi che vengano infranti cliché di genere (e cliché in generale): rinchiudere persone e personaggi dentro le gabbie degli stereotipi è da sempre sinonimo di insicurezza, assenza di empatia, paura. Aprirsi alla possibilità di un’evoluzione è fondamentale, anche se può spiazzare, soprattutto per non incorrere nell’impoverimento di un genere letterario.

R. Leggendo il romanzo si ha l’impressione di trovarsi di fronte a racconti più brevi. Mi complimento con te per questa scelta. Quale ragione ti ha portato a progettare un impianto di questo tipo?
  F. Per me l’aspetto strutturale è una questione di architetture in equilibrio che, necessariamente, poggiano su alcune caratteristiche dello stile. Mi piace creare simmetrie, corrispondenze, estrusioni vertiginose ma sostenute da blocchi più solidi. La ritmica deve percepirsi, ma non essere invadente, e tuttavia l’insieme deve lasciare un’impressione profonda. Per questo, a volte, anche la costruzione della frase può sembrare barocca: per me raccontare un’emozione significa inseguirne le sfumature (in termini di immagini evocate, musicalità delle parole, contaminazioni percettive) e provare a parlare al subcosciente di chi legge. Per esempio, con la lirica puoi colpire molto più duro di quanto tu possa fare con descrizioni puntuali di situazioni drammatiche.
Siccome scrivo prima di tutto “con gli occhi”, per me è più facile ragionare in termini di “scene” piuttosto che di capitoli: pensare come deve chiudersi una sezione è importante per il tipo di sensazione che voglio imprimere nel lettore. Io adoro libri e film in cui alla fine sei portato a fare dei ragionamenti a ritroso, in cui devi mettere insieme i dettagli per rileggere la trama o costruire una sottotrama, un po’ Pulp fiction e un po’ romanzo a cornice. Mi piace quel meccanismo che ti induce a chiederti “ma questo dove vuole arrivare?” e poi ti porta a esclamare “aaaah ecco!”. Secondo me è molto gratificante per chi legge… però capisco che non a tutti piaccia e che sia un po’ faticoso. 
In ogni caso, si può anche decidere di godersi il “viaggio” senza farsi coinvolgere da giochi strutturali vari… ognuno è libero di viversi un libro come vuole.

R. C’è stato un momento in cui avresti voluto abbandonare o momenti di difficoltà nella realizzazione del romanzo?
 F. Mentre scrivevo il romanzo no. Qualche domanda, qualche intoppo soprattutto nelle descrizioni o in alcuni passaggi logici, che temevo poco chiari, ma nulla che non sia riuscita a superare nel giro di poco. Non volevo spedirlo, però, perché sono una perfezionista patologica e una fifona da antologia.
Adesso però ho promesso a me stessa che cercherò di sfruttare questi aspetti del mio carattere in modo proficuo. Fu Voltaire a dire che a volte “il meglio è nemico del bene”, giusto? Pensa se non avessi inviato il manoscritto!

R. Immagino tu abbia avuto soddisfazioni e dispiaceri dai lettori delle Ombre. Puoi raccontarci i due estremi che ti sono rimasti più impressi?
F. La fantascienza ha un pubblico esigente, molto preparato e attento ai dettagli: trattandosi del mio primo contatto con “l’esterno”, ero davvero molto tesa. Ma è anche per questo che ricordo con gioia tutti i commenti dei lettori che hanno scritto delle Ombre sul web o che mi hanno contattata in privato con le loro osservazioni, anche molto articolate e complesse: dagli appassionati di Urania e di sci-fi, che mi hanno accolta con entusiasmo, agli scrittori (fra cui alcune  Signore della fantascienza che già ospiti sul tuo Diario)… porto tutti nel cuore. Dovendo scegliere, ti confesso che sentire Nicoletta Vallorani che legge a voce alta un pezzo delle Ombre… be’, è un’emozione che ancora non so descrivere. Come il grande abbraccio del mio paese quando ho presentato il libro a dicembre: una piccola, grande comunità che ha stretto forte il sogno della bambina che ha visto crescere.
Poi è ovvio che, quando uno si espone, riceve anche delle critiche negative. Vivaddio non amiamo tutti le stesse cose. 
Premetto che i “non mi è piaciuto perché” sono più che legittimi: possono sempre insegnare qualcosa.
Mi spiace molto, invece, che qualcuno si sia sentito offeso da alcune soluzioni linguistiche “ardite”, imputate a ostentazione e autocompiacimento da parte mia: vorrei tanto avere un pizzichino della sicumera che mi si attribuisce in questi casi! Ho ancora molto da imparare, ma ammetto che mi piace esplorare la ricchezza della lingua italiana. A volte, lo riconosco, sono un po’ troppo entusiasta nella mia ricerca.
Aggiungo una piccola nota generale, che pongo a latere rispetto al discorso sul romanzo. Forse è un problema mio, ma non riesco proprio a capire l’ansia di appiccicare etichette su tutto e definire i confini di tutto, a partire magari da singoli dettagli o più probabilmente dai propri pregiudizi. Lo sdegno basato su assiomi (che vengono concepiti e proposti come tali, senza mai assumere la legittima veste di opinione personale) a mio avviso non aiuta né la letteratura né gli scrittori.

R. Parliamo un po’ di te. Leggendo la tua scheda autrice percepisco la tua gavetta: prove generali con i racconti, studio e pratica, raccoglimento, esordio e consacrazione. È un percorso casuale o progettato?



F. Se a 6 anni mi avessi chiesto che cosa avrei voluto fare nella vita, ti avrei risposto “la scrittrice”. Se me lo avessi chiesto a 12, ti avrei risposto “l’archeologa e la scrittrice”. A 18, “l’avvocato e la scrittrice”. A 25, “la ricercatrice e la scrittrice”. A 30, “la grafica, mi basta poter scrivere ogni tanto”. Io penso che ognuno di noi sia condannato a vivere molte vite prima di capire davvero quale sia la sua strada, anche se ce l’ha davanti al naso. A volte la si cerca, senza mai trovarla. Io sono giunta alla conclusione che valga sempre la pena rincorrere i propri sogni, anche se la vita ti mette i bastoni fra le ruote. Sono stata fortunata, perché a fronte della mia titubanza ho trovato qualcuno che ha creduto in me più di quanto facessi io.
…E se mi chiedessi ora che cosa vorrei fare nella vita, ti risponderei “voglio fare la scrittrice! Però dai, anche la grafica mi piace.”

R. La tua formazione accademica ti sta aiutando nella scrittura?
 F. Sicuramente la formazione accademica mi ha dato la possibilità di farmi contaminare da tantissimi stimoli: analizzare ed entrare nei meccanismi della narrazione (letteraria, filmica, artistica) mi consente di vivere descrizioni, trame e personaggi in modo pieno, come mi auguro riescano a fare i miei lettori. Raccontare un’opera d’arte o una storia che hai nella testa è la stessa cosa, è sempre questione di mettere a nudo diversi strati concettuali e dipanarli, interpretarli, ridipingerli… in breve, farli vivere nell’immaginazione di qualcun altro.
Il tema del rapporto fra uomo e tecnologia, poi, è un vecchio amore: sono sempre stata affascinata dal modo in cui le tecnologie possono essere legate alle emozioni, alla creatività e alla trasformazione del corpo e della sua riconcettualizzazione. Penso che queste reminiscenze influenzino, rielaborate in mille modi e in chiave fantastica, alcuni aspetti di cui mi piace scrivere.

R. Infine ti chiedo: hai progetti in corso? Puoi parlarne?
F. Ci sono cose che bollono in pentola… potete stare tranquilli, sono pentole letterarie! Si dice che io scriva meglio di quanto cucini… ;-)

Grazie Francesca per essere stata con me sul Diario. Ti auguro buon proseguimento, una carriera letteraria splendente e il ricordo dei tuoi lettori.

Grazie a te, Romina, è un piacere e un onore trovarmi fra le pagine del tuo Diario. E ti prometto che cercherò di non deluderti!

A presto.
Romina Braggion 



Commenti