Corpi magici, di Pasolini e Vallorani: fondamentale.

 “Le storie hanno un loro preciso punto di innesco nella realtà e le storie delle donne - scrive Le Guin nel suo The carrier bag theory of fiction, seguono percorsi che con l’etica eroica dei padri non hanno nulla a che fare.”
La prefazione inizia così, con una dichiarazione di intenti che contrassegna lo svolgimento del saggio “Corpi magici, scritture incarnate dal fantastico alla fantascienza.”
È scritto da Anna Pasolini e Nicoletta Vallorani e pubblicato da Mimesis edizioni, collana DeGenere, ai primi di dicembre 2020.


Dopo la prefazione, il contenuto si articola in due sezioni. La prima è a cura di Anna Pasolini che esamina il fantastico attraverso le narrazioni di Angela Carter - Nights at the Circus, 1984; Jeanette Winterson - The passion, 1987; Bernardine Evaristo - Blonde Roots, 2009. Della seconda si occupa Nicoletta Vallorani (inserita nel progetto La Metà del Mondo e autrice di un libro - tra i vari- che adoro. Basta cercare Vallorani, nel blog, e appariranno diverse notizie) che analizza la fantascienza mediante le opere di Alice Sheldon, anche sotto pseudonimo; Octavia Butler - Wild seed, 1980; Nora K. Jemisin - The fifth season, 2015.

Ogni sezione è anticipata dalle curatrici con due capitoli introduttivi dedicati uno al fantastico e uno alla fantascienza.

La validità del saggio, oltre al valore didattico relativo all’analisi delle opere delle scrittrici selezionate, si allarga nelle riflessioni suggerite da Pasolini e Vallorani.

La prima considerazione riguarda uno degli elementi caratterizzanti i racconti e i romanzi delle Sei scrittrici, ben evidenziato nell’analisi.
Ogni scrittrice ha cercato un espediente narrativo per rappresentare il viaggio, tema  forte oggetto della propria opera. Il viaggio è il meccanismo della narrazione, strumentale allo svelamento dei corpi quali elemento di rottura del sistema binario e “discorsivo 
(cit. Pasolini)” del patriarcato

Joseph Campbell, nel lontano 1949, produsse “L’eroe dai mille volti”. Un aneddoto racconta che Maureen Murdock pose una domanda a Campbell sentendosi rispondere che la donna non è viaggiatrice, è meta1. La psicologa, in risposta alla roboante affermazione, produsse nel 2010 - quindi sessant’anni dopo l’uscita letteraria di Campbell - il saggio “Il viaggio dell’Eroina”.
Trascurando il fatto che Murdock crea archetipi femminili che affrontano viaggi, in linea di massima, nella propria interiorità, è interessante notare come ci siano voluti sessant’anni per proporre un contraltare a Campbell, quest’ultimo ripreso tra l’altro, con migliori esiti, da Vogler.

Carter, Winterson, Evaristo, Sheldon, Butler, Jemisin, e chissà quante altre avrebbero potuto proporre Pasolini e Vallorani, se ne sono bellamente infischiate del viaggio dell’eroe e della qualifica di meta e, prima ancora dell’ufficializzazione delle archetipiche eroine moderne di Murdock, mediante la scrittura hanno praticato la loro idea di protagoniste e personagge facendo agire le donne in racconti e romanzi diventati pietre miliari della trattazione del femminino libero e autocentrato.
Seguendo, in modo consapevole o inconsapevole, aneliti di libertà e sovversione rispetto a un sistema manipolatorio, le Sei scrittrici mostrano una dinamicità in netta controtendenza rispetto al modello di co-personaggio femminino - non co-protagonista - proposto nella narrativa predominante a firma maschile e, spesso, anche femminile.  
Le Sei hanno illustrato spostamenti lungo un altrove materico e tangibile, - oceani, continenti, linee temporali - togliendoli dal reame dell’incorporeo desiderio di riconoscimento, dunque non dimostrabile e mistificabile, e incarnandoli in corpi, appunto, visibili anche ai miopi occhi maschili.

Un’altra considerazione interessa l’incarnazione, nei corpi ibridi, mostruosi, oppressi, del concetto di delegittimazione del rodato sistema patri-arcaico.
L’imposizione maschile di identità e ruoli non scelti e non voluti comporta, nella scrittura letteraria femminista del fantastico e della fantascienza, la necessità di mimetizzare e trasformare corpi destinati ad alimentare una dittatura che basa il suo potere sullo sfruttamento.  
Se l’oppressore non riconosce o disprezza l’altro, nella discorsività patriarcale chi ha meno potere - in questo caso la donna brutta, mostruosa, vecchia, ribelle, indipendente - c’è una possibilità di vivere secondo le proprie inclinazioni, secondo le proprie aspirazioni.
In risposta a questo tentativo, se non vengono eliminate, fanno notare le Sei, l’alternativa è l’oppressione/schiavitù vita natural durante. Emblematico è il romanzo “The Blonde Roots” che narra, attraverso la protagonista Doris, le vicende di schiavi bianchi europei e di schiavisti neri africani. Altrettanto significativo è il sottotesto costante della schiavitù nera, a partire dal Middle Passage, mostrato in tutte le opere di Butler.
Il superamento dell'ostacolo, invece, presuppone vivere, non il "lasciarsi vivere", e appropriarsi di scelte consapevoli e autodeterminate.
La trasformazione erode la discorsività patriarcale poiché sostituisce parole e metodologie collaudate ed efficaci di riconoscimento binario "io/altro, potere/oppressione, etc." con teorie e azioni femminili, inqualificabili e incontrollabili, pertanto di non facile inserimento nelle griglie semantiche patriarcali.
Quindi anche la trasformazione diventa elemento dinamico e attivo, anch’esso incarnato nei corpi delle protagoniste e contrapposto alla passività del femminino cardine della narrazione canonizzata.

L’ultima considerazione riguarda l’analisi dell’opera di Nora K. Jemisin, autrice afroamericana di indiscusso e comprovato talento.
Vallorani pone l’accento della sua analisi su un elemento inedito rispetto alle altre autrici. Inserendo nell'esame le visioni di Donna Haraway in Chthulucene, anticipate in alcune tematiche di Jemisin pubblicata l’anno prima, Vallorani segnala il tentativo di prendersi carico della cura di un mondo infetto mediante la destituzione del potere patri-arcaico.
La necessità  di narrazione di Jemisin, divenuta improrogabile rispetto alle sue colleghe, affianca, riconosce e mostra un assunto tanto semplice quanto nascosto. Vallorani lo arricchisce e lo rende materia di studio e trattazione attraverso la citazione di opere recenti: “Affiancando riferimenti critici e culturali che appartengono ad ambiti diversi, Mirzoeff2 dimostra come lo schiavismo sia agganciato in modo molto solido alle ragioni del capitalismo bianco e occidentale e sostenuto dal modo in cui viene codificato il sapere umanistico e scientifico” (cit. Vallorani, pag. 170).
Jemisin, come Butler nella serie dei Patternist, aggiunge la riflessione sulla razza a questa enfasi sulla relazione multipla con l’altro. Con maggiore determinazione di Butler, questa scrittrice mette in evidenza, nel suo universo immaginario, quel che si diceva poco sopra sulla complessità della linea del colore in rapporto alla nozione di Antropocene, in cui l’anthropos è bianco, occidentale e maschio. Mirzoeff, ancora nel saggio inserito nella raccolta curata da Grusin, replica la convinzione che Antropocene e razzismo vadano messi in connessione, e poiché l’uomo preso come misura altro non è che - our old friend the (imperialist) white male -, quello di cui parliamo quando parliamo di Antropocene e la consueta scena del suprematismo bianco. (Mirzoeff in Grusin 2018, p. 123)” (cit. Vallorani, pag. 174)
Trovo confortante delineare una convergenza di convinzioni rispetto alla tematica del colonialismo e del danneggiamento del pianeta. Haraway, ribadita nel saggio da Vallorani, dichiara che non riusciremo a sopravvivere da soli, bensì mettendo in campo alleanze paritarie, in-corporazioni e incarnazioni che fuoriescono dal binarismo.
Facendo comprendere, di botto, il paradigma finale, ben narrato da Jemisin e analizzato da Vallorani: i colpevoli devono accettare che anche la loro vita ha una scadenza, come tutto il resto. Ciò che hanno proposto sino a ora è diventato semplicemente veleno per la sopravvivenza e devono togliersi dalle scatole.

Pasolini e Vallorani hanno sviscerato la scrittura femminile e femminista fornendo un esempio riproducibile e stilisticamente prolifico di narrazioni salvifiche per l’intero olobioma.
Mi auguro che questo saggio venga studiato dagli scrittori/trici nell’ottica di apprendere e interiorizzare i concetti formulati affinché possano circolare sempre più narrazioni bio-logiche.

A presto.

Romina Braggion

  1. Estratti dell’opera di Campbell, tratti da: https://www.wikiwand.com/it/Monomito

L'incontro con la dea

Qui è dove all'eroe vengono dati oggetti che lo aiuteranno in futuro.

Campbell: "L'avventura conclusiva, dopo che tutte le barriere e gli orchi sono stati superati, viene comunemente presentata come un matrimonio mistico (ιερός γάμος) dell'anima-eroe trionfante con la Dea Signora del Mondo. È la crisi che si produce al nadir, allo zenith, ο al limite estremo della terra, al centro del cosmo, nel tabernacolo del tempio, ο nell'oscurità dei più remoti recessi del cuore (pag 101) [...] L'incontro con la dea (che è incarnata in ogni donna) costituisce l'esame conclusivo della capacità dell'eroe a conquistare il bene dell'amore (carità: amor fati), che è la vita stessa intesa e goduta come una circoscritta porzione di eternità. E quando il protagonista dell'avventura non è un giovane ma una fanciulla, ella è colei che, per le sue qualità, la sua bellezza, ο la sua bontà, è degna di diventare la compagna di un immortale. Allora il celeste consorte discende sino a lei e la conduce al proprio letto — ch'ella lo voglia ο no. E se ella lo sfugge, alla fine le si aprono gli occhi; se lo cerca, il suo desiderio viene appagato." (pagg 108-109)

La donna come tentatrice

In questo passaggio, l'eroe affronta quelle tentazioni, spesso piaceri di natura fisica, che possono portarlo ad abbandonare o allontanarsi dalla sua missione. Questi non devono necessariamente essere rappresentati da una donna. La donna è una metafora delle tentazioni fisiche o materiali della vita, poiché l'eroe-cavaliere era spesso tentato dalla lussuria durante il suo viaggio.

Campbell: "La difficoltà maggiore risiede nel fatto che il nostro concetto di ciò che dovrebbe essere la vita raramente corrisponde a ciò che la vita è realmente. In genere noi ci rifiutiamo di ammettere con noi stessi o con i nostri amici la gravità di quella febbre violenta, maleodorante, carnivora, lasciva, che costituisce la natura stessa della cellula organica. Preferiamo profumare, imbiancare, e reinterpretare, illudendoci che la mosca nella pomata, il capello nella minestra, siano colpe di qualcun altro. Ma quando all'improvviso comprendiamo, ο ci viene dimostrato, che tutto ciò che pensiamo ο facciamo è inevitabilmente impregnato dell'odore della carne, allora, quasi sempre, siamo sopraffatti dal disgusto: la vita, gli atti della vita, gli organi vitali, e soprattutto la donna quale grande simbolo della vita, diventano insopportabili alla purezza, all'anima pura." (pagg 111-112)

Sebbene verrà fatto notare che gli estratti sono figli di un padre dello scorso secolo, nella pratica l’universo femminile è ancora regolato dalla discorsività patriarcale che riproduce se stessa dalla notte dei tempi, separa e categorizza secondo le sue personalissime esigenze.


2.   Saggio “It’s not the Anthropocene, it’s the White Supremacist Scene”, Nicholas Mirzoeff.

 

Commenti

Franco Ricciardiello ha detto…
Recensione interessantissima, come pure i pensieri che ne derivano.