Recensione: Il bambino che disegnava le ombre

Il bambino che disegnava le ombre è un romanzo di Oriana Ramunno, pubblicato da Rizzoli nella collana Narrativa italiana, il 30 marzo 2021.

Il bambino che disegnava le ombre
Prestito Biblioteca di Verbania

Quarta di copertina

Un caso impossibile per il criminologo Hugo Fischer. 

Quando Hugo Fischer arriva ad Auschwitz è il 23 dicembre del 1943, nevica e il Blocco 10 appare più spettrale del solito.
Lui è l’investigatore di punta della Kriminalpolizei e nasconde un segreto che lo rende dipendente dalla morfina.
È stato chiamato nel campo per scoprire chi ha assassinato Sigismud Braun, un pediatra che lavorava a stretto contatto con Josef Mengele durante i suoi esperimenti con i gemelli, ma non ha idea di quello che sta per affrontare. A Berlino infatti si sa ben poco di quello che succede nei campi di concentramento e lui non è pronto a fare i conti con gli orrori che vengono perpetrati oltre il filo spinato.
Dalla soluzione del caso dipende la sua carriera, forse anche la sua vita, e Fischer si ritroverà a vedersela con militari e medici nazisti, un’umanità crudele e deviata, ma anche con alcuni prigionieri che continuano a resistere. Tra loro c’è Gioele, un bambino ebreo dagli occhi così particolari da avere attirato l’attenzione di Mengele. È stato lui a trovare il cadavere del dottor Braun e a tratteggiare la scena del delitto grazie alle sue sorprendenti abilità nel disegno.
Mentre tutto intorno diventa, ogni giorno di più, una discesa finale agli inferi, tra Gioele e Hugo Fischer nascerà una strana amicizia, un affetto insolito in quel luogo dell’orrore, e proprio per questo ancora più prezioso.

p. 19: “Vide decine di mani aggrapparsi alle grate delle carrozze ancora chiuse. Dita lunghe, ossute e sporche. Brulicavano come vermi dal terreno.”

p. 28: “I colpi del fucile risuonarono nel silenzio della notte e l’ebrea cadde all’indietro, di fianco ai resti della figlia. Il suo sangue si allargò lento e la neve se lo bevve tutto, mescolandolo alla cenere.”


Da ragazzina, durante una discesa libera, persi il controllo dei miei sci. Andai a sbattere a forte velocità contro un provvidenziale larice che evitò la caduta nel dirupo sottostante.

Perché al termine della lettura, chiuso il libro, la mia mente ha evocato questo ricordo?
Forse perché leggere il romanzo è stato come impattare contro un tronco.
Però: arrivederci signora Ramunno, e grazie per tutto il bello. (semicit.)

Da tempo non leggevo un libro così Bello.

Primo argomento da evidenziare.

L’autrice scrive in modo scorrevole, equilibrato, tecnicamente perfetto. Ultimamente sto leggendo libri in cui risalta una certa quantità di pagine superflue, mentre le 384 pagine di cui è composto “Il bambino che disegnava le ombre” sono tutte necessarie.

Il ritmo è incalzante ma non ansiogeno; l’ambientazione grigia, di neve e di cenere, è palpabile e stimola in continuazione vista e olfatto; i personaggi sono tridimensionali, realistici ma senza sbavature; la trama è ben orchestrata, con gli indizi ben distribuiti, pur se il finale è tutt’altro che prevedibile anche per unə lettorə di gialli ben allenatə.

La cifra stilistica del romanzo è la misura sebbene gli argomenti trattati siano forti, dolorosi.
La mia affermazione parrebbe essere in contraddizione con ciò che ho scritto sopra, in merito alla percezione di collisione emotiva che ho avuto.
Così non è, qui sta il mestiere di Ramunno.

Secondo argomento da evidenziare.


La collocazione temporale e il particolare contesto sociale, il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, hanno richiesto una grande mole di documentazione storica. Ho domandato lumi all’autrice, proprio in merito al “dovere” documentale che appare nella narrazione.
Ramunno ha fatto due esami all’università: uno sulla sociologia del nazismo e uno monografico sulla Shoah e ha esaminato i documenti del centro di ricerca di Berlino.  
L’impegno e la passione della ricerca emergono con energia.
Il romanzo si colloca in un settore liminale alla divulgazione, caratteristica assai sorprendente, pur senza intristire nella didascalica analisi di freddi dati.
Quindi la pratica della sopravvivenza quotidiana, sia degli internati, sia di altre persone, viene narrata in tutta la sua portata storico-sociale, con dettagli in grado di svelare particolari così crudeli da essere stati rimossi dalla comune accettazione umana.

p. 44: “Quando sei nell’anus mundi devi trovare un modo per distrarti e sentirti più umano.
Anus mundi.”
Ho appurato che
la locuzione pare sia stata coniata da Heinz Thilo, tenente e ginecologo nazista, medico nel campo di concentramento di Auschwitz. Dal 9 ottobre 1942, divenne responsabile dell'infermeria del campo. In questa veste operò frequentemente nella "rampa di servizio", prendendo parte alle "selezioni" degli ebrei, in cui si determinava al loro arrivo al campo chi dovesse essere condotto alla camera a gas. (fonte Wikipedia)
Durante la lettura scoprirete, se già non lo sapete, cos’erano le rampe e qual era la loro funzione.

Così si entra nel terzo argomento da evidenziare.

A volte l’attivismo, in questo caso sociale, si può svolgere in silenzio, senza clamore ma con la stessa dirompenza.
Ramunno attua con fermezza la rappresentazione della Soluzione finale, all’apparenza storicamente inscalfibile, eppure soggetta al revisionismo come qualsiasi altra vicenda umana.

Già a pagina 39 entra in scena la banalità del male, di Arendtiana memoria, e l’indifferenza citata in ogni testimonianza della senatrice Liliana Segre.
Sono paragrafi che, invece, non lasciano inerti.
L’autrice ci afferra per la collottola, ci infila nell’inferno e ci obbliga a pensare, da subito, tanto per non credere di poter far finta di niente.
In tal senso le pagine 171-172-173, durante un flusso di coscienza del protagonista, sono rappresentative dei dilemmi morali che certamente hanno gravato molte persone affatto indifferenti all’orrore.

Si dimostra anche attenta alla questione femminile quando una personaggia precisa il suo mestiere prima dell’entrata in vigore delle leggi razziali: pediatra, non infermiera, una puntualizzazione che troppo spesso è necessario rimarcare ancora oggi davanti al meccanismo della svalutazione programmatica della posizione sociale femminile.

Ringrazio Oriana Ramunno per avermi donato un romanzo dalla vitalità inconsueta, data l’ambientazione, necessario, emozionante e coinvolgente.
Inoltre la ringrazio per aver raccontato una realistica redenzione pur nello schifo dell’orrore nazista.

Soprattutto la ringrazio per aver dimostrato che il ricordo del 27 gennaio si può manifestare in qualsiasi contesto sociale e in qualsiasi momento, non solo durante le canoniche 24 ore in cui ogni anno commemoriamo la fine del gennaio del 1945, quando l’esercito russo entrò nei resti di un campo di concentramento diventato l’emblema dello sfacelo umano.

La ringrazio perché anche io, come lei, ho nel sangue le molecole di chi quell’orrore lo vide con i propri occhi.

Consiglio la lettura.

A presto.

Romina Braggion 

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