Storia di un Internato Militare Italiano: le due posate d'argento
Le due posate d'argento
Antonio Braggion, mio nonno, nacque nel 1913.
Fece parte del Regio Esercito
Italiano e l’8 settembre 1943 si trovava in Albania, dove occupava i ranghi con
la qualifica di soldato telegrafista.
La data dell’8 settembre 1943 segna uno spartiacque per gli Italiani coinvolti nelle vicende della Seconda Guerra Mondiale. Quel giorno il Maresciallo Pietro Badoglio proclama alla radio, alle 19 e 42, l’Armistizio concordato con gli Alleati, già firmato il 3 settembre a Cassibile, in provincia di Siracusa (il 29 settembre a Malta verrà sottoscritto l’atto di resa incondizionata dell’Italia.
Già dal 25 luglio 1943, data dell’arresto
di Mussolini e della sua sostituzione con il maresciallo, i
vertici nazisti perfezionarono il piano “Achse”, definito nelle sue linee
essenziali per la fine di agosto. Il piano, già predisposto proprio nel caso
della fuoriuscita dell’Italia dal Patto, prevedeva il disarmo completo dei
militari del Regio esercito e l’acquisizione di armi ed equipaggiamento, nella
Penisola e all’estero.
Secondo gli ordini emanati
dalla Wehrmacht, i soldati italiani non disposti a continuare la lotta a fianco
dei tedeschi, dovevano essere disarmati e considerati quali prigionieri di
guerra.
In un primo tempo furono presi in forza dal Capo reparto prigionieri di
guerra del Comando Supremo della Wehrmacht. In seguito, con la collaborazione del
Plenipotenziario generale per l’impiego della manodopera, si reperì il
personale coatto da utilizzare ai fini dell’economia bellica tedesca.
I prigionieri vennero concentrati
prima in campi provvisori, dove cominciò la sequela delle richieste di aderire
alle truppe della RSI, a cui mio nonno oppose il secondo rifiuto dopo il primo
al fronte, e poi trasferiti lentamente verso i lager in Germania e in Polonia.
Il trasferimento fu effettuato in
condizioni estremamente dure per i prigionieri. Le “Badoglio truppen”, come
furono appellate con disprezzo, vennero stipate in carri bestiame
sovraccarichi, a volte su carrozze scoperte, costrette a viaggi che potevano
durare settimane nelle stesse condizioni dei deportati civili e politici.
All’arrivo mio nonno venne assegnato allo Stammlager III A, uno stalag, cioè un campo di prigionia adibito alle truppe e sottoufficiali, situato a Luchenwalde, nel Brandeburgo a 52 km da Berlino.
Venne fotografato, schedato con le impronte digitali, ricevette una piastrina di riconoscimento, era il numero 120.674, oppose il terzo rifiuto di aderire alla Repubblica di Salò.
Più di 200.000 prigionieri passarono attraverso lo stalag III A, tuttavia non
più di 6/8.000 furono ospitati nel campo principale, mentre il resto fu inviato
a lavorare in uno dei più di 1.000 Arbeitskommando (compagnie di lavoro) sparse
nell’intera regione tedesca.
Al rifiuto venne stabilito il suo uso: alla richiesta di agricoltori e allevatori (contadini) mio nonno sollevò la mano. Ai tedeschi dovette garbare parecchio spedire al lavoro un gigante biondo con gli occhi azzurri. Sarebbe stato uno schiavo molto produttivo.
I militari italiani ammassati
nei Lager vennero dichiarati in un primo momento «Kriegsgefangene» cioè
prigionieri di guerra, ma già il 20 settembre, per ordine personale di Hitler, furono considerati IMI «Italienische Militär-Internierten».
Hitler impartì l’ordine
nell’opportunistica convinzione che, essendo stata nel frattempo creata la
Repubblica fascista di Salò, alleata della Germania e considerata come
continuità dello Stato italiano, non fosse ammissibile per la Germania trattenere
come prigionieri di guerra i militari di uno Stato alleato.
In realtà Hitler
ricorse all’espediente con lo scopo preciso di sottrarre i militari italiani
alla tutela, assistenza e controlli della Croce Rossa Internazionale previsti dalla
Convenzione di Ginevra del luglio 1929, sottoscritta anche dalla Germania, per
i prigionieri di guerra.
Verso la fine del dicembre 1943,
mio nonno ricevette la cartolina di mia nonna nella quale lesse della nascita
del quarto figlio, Luigino, mio padre (concepito durante una licenza dal fronte, nella
speranza di essere rispedito a casa e dispensato dall’obbligo della leva grazie al quarto erede. Così non fu).
La cartolina era formata da due parti, alla metà scritta e inviata dal prigioniero in Italia ne era attaccata un'altra destinata
alla risposta dei familiari. La censura imponeva frasi di rito, sebbene
contestualizzate, nelle quali si esprimevano contentezza per il bene-stare
della famiglia e del prigioniero e l’auspicio di un pronto ricongiungimento. I
soldati semplici potevano spedire un totale di due lettere e quattro cartoline.
La corrispondenza di guerra, Kriegsgefangenenpost, aumentava in quantità a
seconda dei gradi militari.
L’organizzazione
dell’Arbeitskommando in cui era impiegato mio nonno consisteva, così come la
quasi totalità dei campi lavoro, in giornate di 10-12 ore più i trasferimenti
mattina e sera verso i luoghi di lavoro, pessime e miserrime razioni di cibo,
maltrattamenti, scarsa igiene, mancanza di cure sanitarie.
Mio nonno si ruppe
un’anca e guarì “sopra l’osso”, come si diceva allora, senza essere ingessato. Nella sua vecchiaia l’infortunio
gli costò una riduzione dell’altezza di circa venti cm e dolore costante, sebbene
sopportato con grande stoicismo, da cui si liberò solo con la morte.
Poiché era adibito al governo
dei campi e degli animali in una grande fattoria, mio nonno riuscì a evitare in parte la
fame più feroce con la sottrazione di piccole porzioni di sbobba destinata ai maiali o
qualche scarto di verdura.
Ricordo che da bambina, durante le estati trascorse a Cona, VE, in campagna da
loro, chiedevo al nonno come era regolata la sua vita da prigioniero.
La sua
risposta standard era che non aveva mai mangiato porzioni di cibo così
abbondanti come durante la prigionia. Era tutto.
Mia nonna, l'unica vera depositaria della sua memoria, sottovoce smentiva
sempre l’affermazione.
Va indicata la dieta tipo della famiglia Braggion nel dopoguerra: mezzo uovo (o
una fettina di lardo o un po’ di pasta o patate oppure, nei giorni di grande festa,
zampe di pollame o colli o regaglie) e verze per i quattro figlioletti e il
nonno Piero; un uovo intero per i genitori.
La polenta era cucinata in ogni stagione, durante l’estate cambiava il tipo di
verdura.
Come ulteriore prova della reticenza a parlare di vicende così tragiche ai
nipoti e come ulteriore smentita delle abbondanti porzioni della prigionia,
ricordo un episodio avvenuto durante una visita ai nonni. Erano trascorsi almeno
quindici anni dalla mia infanzia.
Stavano trasmettendo un programma di cucina in televisione. Era appena iniziata
la moda delle patatine novelle con la buccia.
Mio nonno tirò un accidente e disse che se le mangiassero loro, le patate con
la buccia. Anzi, si mangiassero la buccia con un po’ di patata, visto che ci
tenevano tanto.
“I gà da proare cossa xe magnare le sgusse onte dle patate”. (dovrebbero provare cosa vuol dire mangiare le bucce sporche delle patate)
Mi sovvenne allora che
una volta al nonno scappò detto che diversi suoi compagni di prigionia “i
tirava le piére ai ponteghi par coparli e magnarli o magnarghe le verdure marxe.
Ma no mì, mì no gò mai magna cussì tanto.” (tiravano i sassi ai topi per ammazzarli e mangiarli o mangiargli le verdure marce. Ma non io, io non ho mai mangiato così tanto)
Ovvio che alla nonna, grande e creativa cuoca, non venne mai in mente di proporre
la nuova ricetta vista in TV.
Dal
10 febbraio 1944 la vita degli internati venne resa ancora più dura dall’ordine
di Hitler di ridurre le razioni a chi era considerato poco produttivo, e venne
applicato il “regime di alimentazione da rendimento”. I reticolati, le baracche
di legno o le tende, le angherie, il freddo, i pidocchi, la fame, la fatica, le
punizioni, le fucilazioni, le impiccagioni accompagnarono la permanenza nei
Lager fino alla fine della guerra.
Lo
Stammlager III A venne liberato dalle truppe sovietiche il 22 aprile 1945 e in
successione tutti gli Arbeitskommando a esso collegati.
Durante gli ultimi mesi prima
della liberazione, l’organizzazione del lavoro perse di efficienza. All’inizio
i prigionieri venivano spostati dalla fattoria al campo ogni giorno, poi ogni
due. Alla fine vi trascorsero una settimana di fila finché, una notte, mio
nonno e i suoi compagni di sventura assistettero al fuggi fuggi degli abitanti
della grande villa colonica.
Dopo un iniziale smarrimento, i prigionieri entrarono nella ricca dimora e scoprirono
una realtà che mai nessuno di loro vide più con i propri occhi, se non durante
qualche visita culturale negli anni del boom economico.
Mio nonno prese tre posate d’argento
dalla grande madia della cucina: una forchetta e un cucchiaio da portata e una paletta per
il dolce. Riuscì a tenerle nascoste addosso fino all’arrivo in Italia, nella
tarda estate del 1945. La forchetta è andata perduta nei vari traslochi
familiari, mentre le due posate restanti e la cartolina di annunciazione della
nascita di mio padre sono conservate con cura.
L’apparizione di mio nonno,
sull’uscio di casa, venne accolta con iniziale stupore. Poiché due suoi
compaesani e commilitoni perirono durante la detenzione in Germania, avevano
dato per disperso il nonno dal momento che mia nonna, il bisnonno Piero, i figli cioè mio padre e gli zii, non ricevettero alcuna sua notizia
per parecchi mesi.
La fibra forte del corpo e
dello spirito lo condussero a casa, sebbene deperito e sofferente. Qualche mese
di recupero fu necessario per riprendere la vita come esisteva prima dell’arruolamento
al fronte. Purtroppo fu parco di rievocazioni e di parole.
La testimonianza è stata ricostruita con i ricordi di mio padre, gli scarsissimi miei, le indicazioni
della cartolina e la documentazione storica. Magari i miei cugini, se leggeranno
quanto ho scritto, riusciranno ad aggiungere qualche precisazione per correggere o
arricchire la memoria.
Post scriptum
Ho visto la registrazione
della diretta Facebook di venerdì 28 gennaio 2022, sul sito di Ilsreco, intitolata "Ri-umanizzarsi. Da Primo Levi a
Dante, da Antonio Gramsci a Pierpaolo Pasolini".
Ivano Mariconti, uno dei
relatori, cita un libro di David Bidussa, pubblicato nel 2009 da Einaudi: “Dopo
l’ultimo testimone”
Ecco la quarta di copertina e
lo strillo: “Quando
rimarremo soli a raccontare l'orrore della Shoah, non basterà dire «Mai piú!»
né rifugiarsi tra le convenzioni della retorica. Serviranno gli strumenti della
storia e la capacità di superare i riti consolatori della memoria.
Una
volta che le voci testimoniali di un evento scompariranno che cos’avremo in
mano? Come elaboreremo quel vuoto? E allo stesso tempo come rifletteremo?
La
questione riguarda la capacità che quelle voci hanno di parlare e di suscitare
domande; non solo di riprodurre se stesse. In quel terreno vuoto si porrà la
dimensione della postmemoria, di una riflessione che vivrà unicamente e
strutturalmente della capacità di elaborare documenti.
Per
molto tempo, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, lo sterminio ebraico
non è stato raccontato. Al massimo trovava posto nelle storie di famiglia, come
una sorta di vicenda privata. Poi, alcuni anni fa, mentre la generazione dei
testimoni oculari iniziava a morire, il problema si è imposto all’attenzione
pubblica.
Dieci
anni dopo la sua istituzione ufficiale, il Giorno della memoria ha un futuro
oppure il suo contenuto si è già esaurito? Che efficacia può avere, oggi, il
racconto degli ultimi testimoni? E avere ascoltato tante volte il racconto di
quell’orrore ci ha reso davvero piú consapevoli e attrezzati dinanzi al rischio
di una sua ripetizione?
David
Bidussa indaga la retorica della memoria pubblica, senza fare sconti ai suoi
meccanismi rituali e alle sue debolezze. Lo fa guardando al momento in cui, tra
pochi anni, non ci sarà piú nessuno a raccontarci di aver visto con i propri
occhi l’orrore dei massacri. Quando resteremo solo noi a raccontare le vittime
e i carnefici con gli strumenti della storia.” (citazione)
Dopo l’ultimo testimone,
rimarranno i figli, i nipoti, gli amici, i discepoli. Resterà chi si schiera
ma, allo stesso tempo, aumenteranno gli indifferenti.
Nella nostra epoca, con facilità vengono travisati e mistificati dati di
qualsiasi tipo, legati a ogni evento umano e planetario.
Quale valore, o forza, potrà avere la storiografia nel postmemoria, citato da
Mariconti nel video e da Bidussa nel libro, se il revisionismo di fatti di qualsiasi
collocazione temporale e geografica sembra rafforzare i suoi meccanismi di manipolazione
di concetti assoluti come bene e male?
Quale senso può avere la mia ricostruzione basata su dati documentali e,
soprattutto, sulla memoria dell’esempio di vita sia del nonno che della nonna,
sui ricordi delle emozioni, sulla pratica della responsabilità agita e
trasmessa a me e in me in quanto sangue, carne, struttura dell'amato nonno?
La mia personale esperienza di nipote di internato potrebbe fermarsi in me, e nei
miei cugini, così come l’esperienza di figlio di internato potrebbe essersi
fermata in mio padre e nei suoi fratelli e sorella. Potrebbe fermarsi in tutti
coloro che l’hanno conosciuto.
Ma quanti siamo? A quanti figli e nipoti si cercherà di mutare il ricordo dell’amore
per i propri cari in cambio della banalità dell’indifferenza?
Se l’ignavia di dantesca memoria si trasformerà di nuovo nella banalità del
male citata da Arendt, saremo capaci di trovare il coraggio di sostenere la pregnanza
delle vite dei defunti?
Chi disse No più volte al richiamo del male, travestito da bene, avrebbe onorata la memoria?
Mi sono resa conto di aver posto troppe domande alle quali fatico a dare una
risposta.
Non vorrei mai essere costretta a diventare coraggiosa, se anche ne fossi in
grado, per difendere il valore del ricordo e dell’amore.
Forse basterebbe imparare a non essere indifferenti alle mistificazioni e alle
ingiustizie.
Quale potrebbe essere il passo successivo all’apprendimento?
Un’altra
domanda.
La risposta, datela voi.
Romina Braggion
Fonti:
www.pastorevito.it
https://sites.google.com/view/ilsreco/home?authuser=0
www.museodell’internamento.it
https://it.wikipedia.org/wiki/Internati_Militari_Italiani
www.deportati.it/wp-content/static/carini.pdf
Alice Vergnaghi, Ercole Ongaro e Ivano Mariconti (rispettivamente docente referente per la didattica, direttore scientifico Ilsreco, delegato Aned) converseranno sul tema Ri-umanizzarsi. Da Primo Levi a Dante, da Antonio Gramsci a Pierpaolo Pasolini. https://www.facebook.com/111123567385528/videos/234601668864057
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